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L'origine più attendibile del nome di Montegabbione potrebbe derivare dal latino Mons caupíonis o Mons capionis, che può, essere tradotto come: monte della presa, della conquista, del possesso, del feudo. Per un normale processo di deformazione della pronuncia e della scrittura, al momento del passaggio dal latino all'italiano (1000-1200), la parola capionis divenne gabionis, donde Mons Gabionis, e definitivamente molto più tardi Montegabbione. Il significato proposto nasce dallo studio sull'origine e lo sviluppo del paese, che nel contesto delle lotte piccole e grandi del feudalesimo, del vassallaggio, delle signorie e del dominio pontificio, rappresentò sempre un luogo strategico.
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Verso il 1100, Bulgarello I si trasferì dalla Toscana in Umbria, tra Chiusi ed Orvieto. I suoi discendenti furono detti Bulgarelli, noti come Conti di Parrano per il castello di loro proprietà in tale località, per il quale ricevettero l’investitura dai Vescovi orvietani dal 1118 al 1280. Bulgarello I ebbe quattro figli: Bernardo morto intorno al 1140, Gualfredo, Ugolino e Gregorio. Da Bernardo nacque Bulgarello II, padre a sua volta di: Rainerio I, morto intorno al 1200, e di Bernardino. Da Rainerio I nacque Bulgarello III, morto dopo il 1216, e Rainerio II. Da Bulgarello III nacque Rainerio III che si sposò con Valseverina e morì dopo il 1251. Da Rainerio III e Valseverina nacquero Bulgaruccio, morto nel 1275, e Bernardino, morto intorno al 1300. Bulgaruccio lasciò tre figli: Bernardo o Nardo, Nerio e Ugolino; Bernardino invece ne ebbe sei: Ugolino, Ottaviano, Celio, Uguccione, Lamberto, Ghisa. I fratelli Bulgaruccio e Bernardino, figli di Rainerio III, possedevano i castelli di Parrano, Marsciano, Poggio Aquilone, Migliano, Castelvecchio, la villa di S. Pietro in Sigillo e di S. Croce, la montagna di Carnaiola, la selva di Collelongo, fra Monte Gabbione e Monte Leone, molini e ragioni sul fiume Chiana, a Castel di Fiore e in Campiglia e case in Orvieto. Bernardino nel 1280 divise con i tre nipoti Nardo, Nerio e Ugolino molti dei suddetti beni e castelli, e il 15 aprile del 1281, insieme agli stessi nipoti, vendette al Comune di Perugia la giurisdizione di Marsciano per 5000 libre di denari, ai rogiti del notaio Michele di Guido di Ranaldo, sindaco e rappresentante del Comune, riservandosi però i diritti, i privilegi e le proprietà che restarono indivisi in Marsciano; tra questi diritti e privilegi riservati fu anche quello del titolo comitale, il quale restò ad essi ed ai loro successori, che seguiteranno ad essere chiamati indifferentemente Conti di Marsciano e Conti di Montegiove. (Da: F. Rossetti, La Beata Angelina dei Conti di Montegiove, Siena 1976).
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SECOLO XIII <br>
Nerio di Bulgaruccio, primo conte di Montegiove, è un personaggio di primo piano nella storia dei Conti di Marsciano. Egli sovrastava in proprietà di beni i fratelli Ugolino e Nardo. Oltre al castello di Montegiove, possedeva ragioni di casa in Orvieto nel quartiere dei Ss. Giovanni e Giovenale; in Perugia l’allibrato dei tre fratelli era di diecimila libre, in Orvieto quello del solo Nerio di ben 9.694 libbre. Il Conte Nerio morì in benedizione nel 1290 e fu sepolto nella chiesa della Scarzuola. Ebbe un unico figlio, Bindo detto anche Binolo, secondo conte di Montegiove e anche Signore di Castelvecchio in Val d’Orcia. Binolo sposò Fiandina della Corbara dei conti di Montemarte, oriunda di Todi e trapiantatasi ad Orvieto. La moglie accrebbe le già rilevanti sostanze di Binolo, come risulta dal suo allibramento di lire cortonesi 33.925 nel catasto del 1292. Il padre di lei Pietro d’Andrea, partecipò alla famosa battaglia di Monteaperti, presso l’Arbia, del 2 settembre 1260, schierato con parte guelfa tra i condottieri orvietani. Binolo morì intorno al 1320, lasciando tre figli: Giacomo, Taddeo, Nicolò. Da: F. Rossetti, op.cit.). Hic est liber appassatus terrarum et possessionum hominum castri Montis Gaubionis. Il totale delle poste di allibramento è di 186. Se pensiamo che la media dei componenti di un nucleo familiare è di cinque unità, possiamo sapere approssimativamente il totale della popolazione di Montegabbione e dintorni nel 1292: il risultato dell’operazione è 930. Nel catasto, voluto dalle autorità del Comune di Orvieto da cui Montegabbione dipendeva, sono descritte le proprietà fondiarie degli abitanti; più comunemente le persone possedevano terre silvate, vineate, rufinate, cum olivis, cum quercubus, cum arboribus, cioè boschi, vigne, terre scoscese, oliveti, querceti, alberi. La famiglia più ricca era quella dei fratelli Venuto, Pietro e Giacomo Polisci, che possedevano 33 terreni per un valore complessivo di 1.334 lire. Fra i meno ricchi, se non poveri, un certo Ranuccio Zitulini, che possedeva un terreno del valore di 6 soldi appena. I terreni erano situati in diverse contrade e località, fra cui le più frequenti sono: costa Montaralis, contrata in colle Croci, contrata stipçolarie, contrata canipatorio. (Da: Archivio Storico di Stato, Orvieto).
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SECOLO XIV <br>
Giacomo di Binolo è il terzo Conte di Montegiove e anch’egli, come gli altri successori di Nerio, veniva chiamato anche Conte di Marsciano. Egli sale alla ribalta della vita militare il 9 settembre 1346, data in cui il Comune di Orvieto lo obbliga, insieme ad altri feudatari, di provvedere alla difesa del Patrimonio contro le incursioni, attrezzando allo scopo il castello di Montegiove e di assicurare la guarnigione dei castelli di Monte Leone e Monte Gabbione. La sollecitudine, la difesa, la potenza e le spese sostenute, impiegate con intelligenza e capacità, gli valsero un pubblico riconoscimento di benemerenza e di encomio, e in più l’esenzione dalle gravezze comunali. Il Conte Giacomo di Binolo sposò una certa domina Alexandra, appartenente alla potente famiglia dei Salimbeni di Siena. Specialmente nella seconda metà del 1300 appaiono più stretti i legami tra il Comune di Orvieto e i Salimbeni. Il Comune di Orvieto, che si era adoperato a comporre le inimicizie tra Salimbeni e Tolomei, nel 1395 nominava Capitano del popolo Giovanni Salimbeni. Giacomo e Alessandra ebbero cinque figli: Notto, Nicolò, Mariano, Francesca e Angelina, che sarà poi innalzata agli onori degli altari. Al Conte Giacomo succedette alla contea di Montegiove Notto; i numerosi suoi beni sono elencati nel catasto orvietano del 1363; sposò Angela Monaldeschi di Nericola, di Ciuccio di Nericola della città de l’Aquila. Notto morì senza figli tra il 1362 e il 1363, forse di peste; a lui succedette, quinto Conte di Montegiove, il fratello Nicolò, il quale sposò Lascia, sorella di sua cognata Angela, e dalla quale non ebbe figli. Il governo comitale di Nicolò non fu tra i più tranquilli; fu turbato dalle pesantezze tributarie del Comune di Orvieto, contro cui sollevò contestazioni; il Comune, senza attendere la sentenza della giustizia, volle prevalere; così l’abate Conte Nicolò, con i nipoti, tentò la rivalsa ricorrendo al Comune di Perugia, e per rafforzare la richiesta di protezione e di soggezione si confederò con Bulgaro di Tiberuccio, con Federico di Baldino Conte di Parrano, con Ludovico di Bindo Signore di Brandetto e con Bernardino di Azzo. I nobili, ad iniziativa di Bulgaro di Tiberuccio, fin dal 1377 progettarono con Perugia una confederazione dei castelli di Parrano, Montegiove, Monte Leone, Brandetto, Cartiolo, le badie di Monteorvietano e d’Acqualta. Nella confusione e nell’incertezza degli eventi Nicolò e Mariano chiesero ed ottennero la protezione di Perugia, cui si sottomisero. Il 6 maggio 1380 il Podestà di Perugia Alberto de Gallutiis e i Priori riunitisi in consiglio plenario, accettarono la sottomissione dei castelli di Montegiove e Pornello e delegarono a prenderne possesso Vannuzio di Massolo, che li confederò e redasse il patto. Dopo pochi giorni devastò Orvieto; nel saccheggio sfuggirono alla morte i Conti Ugolino e Francesco di Corbara e Nicolò abate di S. Severo. La sottomissione a Perugia dovette durare fino alla morte di Nicolò e Mariano, circa il 1394, anzi si può affermare che cessò nel 1393, in quanto in questo anno non offrono più il palio di soggezione. (Da: F. Rossetti, op.cit.).
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1366 – il 7 settembre si partirono da Vallocchi et andarsene a Ficulle et a Monte Gabbione.
1369 – Ma invece si fece aventi Guglielmo di Beaufort visconte di Turena, e ottenne dall’imperatore la città di Chiusi e mosse lite ad Orvieto, sopra i castelli di Monte Leone e Monte Gabbione occupandoli a forza e vendendoli al conte Ugolino di Montemarte.
1380 – venne in questo tempo in Orvieto messer Giovannuzzo degli Ubaldini con 200 cavalli et 200 fanti, et noi lo sostenemmo qualche mese di denari e vettovaglie, et si fece in questi tempi molti danni alli Muffati nelli luoghi loro et si prese Castel di Fiore con la badia di Acqualta.
1387 – Facemmo gran brigata e briga contro di loro, et andai a tutti i loro mulini, et guastai e feci ardere tutte le ville di Parrano e tutto Castel di Fiore.
1399 – il dì poi seguente si andò a Castel di Fiore e la torre e il palazzo gli rovinarono. (Da: F.A. Gualtiero, Cronaca degli avvenimenti d’Orvieto 1330-1440, Torino 1847).
Un cenno meritano taluni stemmi con la biscia, ritrovati qua e la in Monte Gabbione. Essi ci dicono che Montegabbione verso la metà del 1300 fu sicuro feudo della casa dei Monaldeschi di Orvieto, Casa che per lotte intestine si era divisa in tre fazioni, prendendo ciascuna come proprio emblema la Cerva, la Vipera, il Cane: i Conti della Vipera signori della zona altro non erano che i Monaldeschi contro i quali ebbe a combattere e vittoriosamente l’Albornoz. (Da: L. Iaconi, Cronache di paese, a.III, n. 4-5, 1972). In occasione dell’Anno Santo o Giubileo del 1300 indetto dal Papa Bonifacio VIII, furono inviate a Roma truppe dall’Orvietano, per quello che oggi chiameremmo un servizio d’ordine o di polizia: … dalli Orvietani furono mandati a Roma la cavalleria del Comune per guardia e sicurezza della città e del Papa stesso, e ancora molti fanti delli castelli…. Ficulle 100, Monte Gubiano (Montegabbione) 20, Carnaiola 6, Montegiove 6. La nota, desunta dai Commentarii historici di Monaldo Monaldeschi, stampati a Venezia nel 1584, ci fa intravedere che Montegabbione inviò un numero ragguardevole di uomini, tenuto conto del tempo e della consistenza del paese. (Cfr. C. Simoni, Il castello di Monte Giove de Montanea, Roma 1925). L’esistenza di antichi documenti riguardanti Montegabbione è stata comprovata dalle ricerche di Maria Teresa Moretti la quale nel Bollettino Artistico-Storico Orvietano, anno XXVI 1970, ci ha fatto conoscere 64 lettere, scritte fra il 1300 e l’inizio del 1400; esse non solo offrono utili indicazioni sulla lingua parlata e scritta nella zona di Orvieto in quel periodo, ma anche validi indizi su fatti e vita della regione orvietana che comprendeva, tra le altre località, Montegabbione e Montegiove.Da Montegabbione risultano inviate due lettere, classificate dalla Moretti con numero XL-f.666 e XL-f.667 di repertorio, ove la lettera f. significa filza di fondo comunale. La prima è di un certo Bolognino da Papazzone, uomo d’armi probabilmente Capitano di ventura, ed è indirizzata a Corrado e Luca Bernardo dei Monaldeschi, signori di Orvieto. Sappiamo dalla storia che Corrado, partigiano del Papa Clemente VII, ebbe da questi il dominio della città di Orvieto per tre anni, assieme al fratello Luca. La loro firma compare nella cosiddetta Pace di Orvieto del 1389: quindi la lettera in questione è di questi anni. Bolognino da Papazzone si rivolge ai due Monaldeschi notificando che un tale Milano ed i suoi compagni di armi hanno fatto dei prigionieri amici dei Monaldeschi. Per essi chiede un riscatto di 350 fiorini d’oro ed un salvacondotto per 50 cavalli. Il contesto della lettera lascia intravedere un fatto d’armi e Montegabbione risulta il luogo di detenzione degli amici dei Monaldeschi. La seconda lettera appare più interessante; è firmata da un certo Cola ed è indirizzata ai sette magnifici signori Capitani del popolo orvietano. Porta la data del 6 febbraio, senza anno; è da considerarsi posteriore a quella di Bolognino: Signori miei. Io ve significo de’ modi che tengheno vostri fedelissimi servitori de Montecabioni; prima essi sono in concordia pienamente uniti ad ogni cosa che sia honore e stanno del comune di Orvieto a buona e sollecita guardia, e anno loro offitiale sollicito e confidato, per la qual cosa prego la Signoria vostra che ve piaccia al presente non dar loro altro offitiale, né più spesa, perché sono povari e trovareteli lealissimi. Meco sciendico d’essi huomini (è con me il loro rappresentante) portatore della lettera per più fede. Cola vostro minimo servitore ve se rachomanda…. Dalle due lettere risulta chiaro che Montegabbione alla fine del trecento e all’inizio del quattrocento era il tipico maniero che oscillava tra la lotta e la fedeltà ad Orvieto. (Da: L. Iaconi, Cronache di paese, a.IV n.2, 1973). Come s’è visto, nella seconda metà del 1300 le sorti di Montegabbione, Montegiove e Casteldifiori, finora legate in maniera diversa agli orvietani, si sono divise: nel 1369 Guglielmo di Beaufort ha mosso guerra ad Orvieto e occupato con la forza Montegabbione, vendendolo poi al Conte Ugolino di Montemarte; nel 1380 il Podestà di Perugia ha accettato la sottomissione dei Conti di Montegiove; nello stesso anno Giovannuzzo degli Ubaldini per conto degli orvietani ha strappato Casteldifiori al potere dei Conti di Montegiove.
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SECOLO XV <br>
Intorno al 1443 Nicolò di Montemarte figlio di Ugolino, vendette al Papa Eugenio IV il castello di Montegabbione; nel 1459 il Papa Pio II ufficializzava l’acquisizione di questo possedimento, confermando i privilegi concessi dai predecessori. Faiolo, le cui documentazioni storiche risalgono al secolo XV – come è testimoniato da un dipinto murale posto all’interno della chiesina di Faiolo, a destra prima dell’abside – sembra seguire le sorti di Montegabbione. Il castello di Montegiove, intanto seguiva altre vicissitudini. Alcuni rapporti di carattere giudiziale tra Montegabbione ed i magnifici potenti Signori conservatori della pace in Orvieto possono essere indagati presso l’Archivio Storico di Stato di Orvieto ove sono conservate alcune lettere. 1443 – Niccolò di Montemarte, figlio di Ugolino, promise che tornando a possedere il castello di Fabro lo rassegnerebbe al Papa come gli altri castelli di Monte leone e Monte Gabbione. 1443 – Niccolò Piccinino andò con certe genti a guerreggiare e pose l’assedio a Monte Leone e avendolo assediato un mese ed essendo Monte Leone senza vettovagliamento, cercarono accordo che Golino se ne andasse. E detto Conte lasciò Monte Leone, Monte Gabbione e Carnaiola. 1459 – Il Papa ordina che si osservi il breve della remissione fatta dal Conte di Montemarte del sussidio alla Camera Apostolica perché sia spesa a riparazione delle mura dei castelli e che Monte Gabbione e Monte Leone seguitino a godere dei privilegi concessi da Niccolò V a da Callisto III. (Da: L. Fumi, Codice diplomatico della città di Orvieto, Firenze 1884). i Conti di Corbara, succeduti ai Conti di Montegiove, non ebbero fissa dimora al castello.Lo vendettero nel 1417 a Pier Antonio di Messer Bonconte Monaldeschi della Vipera. Cinque anni dopo, nel 1442, Pier Antonio divideva, con atto notarile, in due parti il castello di Montegiove intestandolo alla nipote Giacoma, nata dalla figlia Milla e da Francesco Bisenzi, vedova di Beccarino della Leonessa, ed ai figli Arrigo e Gentile. Montegiove passava così in dominio a due nuove famiglie, a quella dei Monaldeschi della Vipera e a quella di Giacoma Bisenzi vedova Leonessa. Successivamente il dominio della contea passò interamente ai Leonessa. Bartolomeo della Leonessa, nel 1455, lo vendette a Giovanni Antonio, figlio del famoso Erasmo da Narni detto il Gattamelata e di Giacoma di Beccarino della Leonessa; subentrarono così i Gattamelata, un decennio in cui il castello ricevette nuove strutture imposte dalla scoperta di nuove armi da fuoco e dai continui violenti assalti nemici. Alla morte di Giovanni Antonio, detto il Gattolin, il castello rimase in mano alla madre, vedova del Gattamelata, e da lei passò per via ereditaria a Todeschina, figlia del Gattamelata e sposa del Conte Antonio di Ranuccio di Manno di Marsciano; in tal modo l’antico ramo dei Conti di Marsciano tornava in possesso di Montegiove. Il Conte Antonio morì a 55 anni, il 31 ottobre 1484, combattendo con il grado di generale a sevizio dell’esercito fiorentino contro Sarzana e Pietrasanta; lasciava undici figli: Ranuccio, Lamberto, Bernardino, Mario, Ludovico, Gentile, Pirro, Alessandro, Agata, Tomasa, Lucrezia. L’eredità lasciata ai figli consisteva in quattro estese tenute, i castelli di Montegiove, Parrano, Poggio Aquilone, Migliano, Castel di Fiore, le ville di Pornello, Fratta Guida, Pastignano e metà della Fratta Balda. La vedova di lui, Todeschina, morì sessantenne nel 1498 e il suo corpo fu sepolto nella chiesa della Scarzuola. (Cfr. F. Rossetti e C. Simoni, opp.cit.) SECOLO XVI Scomparsa Todeschina, Montegiove toccò ai fratelli Bernardino e Alessandro, col castello e le terre divisi in due parti; a Gentile e a Pirro, in parti uguali, il feudo di Poggio Aquilone, con case e terre; a Lamberto, Migliano con tutte le sue ragioni; a Mario, Civitella e Fratta Balda; a Ranuccio, Parrano con vigne e terreni; a Ludovico, Castel del Fiore, case e vigne in Parrano, private del dominio, terreni in quel di Monte Gabbione. Delitti e sciagure bruttarono la casa dei figli del Conte Antonio: due lordi di assassinio, altri cinque troncati di ferro o di laccio. Pose fine alle lotte fratricide il Breve dell’8 gennaio 1518 di Papa Leone X; Bernardino di Antonio, signore di Montegiove, prestava giuramento di fedeltà a Roma nelle mani del tesoriere della Camera Apostolica, anche a nome dei propri fratelli e coeredi, nello stesso mese. I discendenti di Bernardino, con alterne vicende, riuscirono a mantenere al proprio casato il castello di Montegiove, fin quasi alla fine del 1600. (Cfr. C. Simoni, op.cit). De pena ludentis ad ludum texillorum (della pena spettante a chi gioca ai dadi): Nessuno nel castello di Montegabbione, nel suo distretto, giochi ai dadi o ad altro gioco che comporti la vincita o la perdita di denaro, sotto la pena di cento soldi per volta. Alla stessa pena è soggetto che, in casa o in una taverna, favorisce tale gioco e ne ricava guadagno. È tuttavia lecito giocare alla tavola (scacchiera), con i dadi, a palla, a morra senza essere soggetti a pena se lo scopo del gioco è bere un bicchiere di vino. (Da: Statuto del castello di Montegabbione, sec. XVI, Archivio Comunale di Montegabbione). Esiste presso l’Archivio Storico di Stato di Orvieto il catasto di Montegabbione del 1536: trattasi di un manoscritto cartaceo ben conservato in cui sono descritte le proprietà degli abitanti di Montegabbione, in ordine alfabetico nominativo.
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SECOLI XVII-XVIII<br>
La contea di Montegiove appare frazionata fra i Degli Atti di Viterbo, gli Aviomanzi, i Misciattelli e i Marsciano, ma siamo ormai, anche per il territorio montegabbionese, sotto il dominio Pontificio, che resterà sull’Umbria fin quasi all’ unità d’Italia. L’esistenza di numerose confraternite, Priorati e Compagnie, sia a Montegabbione che a Montegiove, documentata negli Archivi Parrocchiali, testimonia non soltanto l’aspetto religioso, ma uno spirito di solidarietà che si viene affermando tra la popolazione meno abbiente; compiti di queste associazioni, infatti, non sono soltanto la manutenzione di chiese, altari e arredi sacri e l’animazione delle funzioni liturgiche, ma anche la promozione di opere caritatevoli, quali l’assistenza ai poveri, agli ammalati ed ai morenti. Tali opere sono rese possibili dall’esistenza di rendite, quasi sempre frutto di donazioni, la cui amministrazione viene tenuta da un fratello detto Camerlengo o Priore. Ricordiamo alcune di questa associazioni laicali: Confraternita del Ss Sacramento, Compagnia di S.Rocco, Compagnia della Morte o Orazione, Confraternita di Maria Ss. Addolorata, Priorato del Purgatorio, Priorato di S.Lucia, Priorato di S.Antonio. Nei secoli successivi alcune di esse scompariranno, mentre altre si fonderanno sotto il nome di Compagnie riunite.
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SECOLI XIX-XX<br>
La storia successiva, fino ai nostri giorni, non è stata purtroppo ancora indagata: una buona fonte sarebbe da ricercare negli Archivi Comunali di Montegabbione. Avremmo modo di approfondire la valenza storico-culturale della civiltà contadina, che questo territorio ha impregnato e trasformato. L’interesse per essa e la promozione di una ricerca sulle tradizioni popolari agricole manifestano l’esigenza di non disperdere un patrimonio storico-sociale. Non a caso in questi frenetici tempi post-industriali la cultura di massa riscopre l’importanza del rapporto uomo-ambiente e la necessità di ristabilire fra essi il naturale equilibrio. Scopriremmo che la civiltà contadine del nostro territorio ha comuni radici e tradizioni con le circostanti zone del pievese, della Val di Chiana e dell’Orvietano, anche se esistono differenziazioni linguistiche qualche volta appariscenti. La situazione economica nelle campagne, dal settecento fin quasi dopo la Seconda Guerra mondiale, non era certo la più florida: a volte nelle famiglie dei contadini mancava anche il necessario per vivere. Il contratto sociale che vigeva era una sorta di mezzadria, ove gli obblighi colonici, detti anche servitù, non si riducevano solo a qualche coppia d’uova o a qualche pollo o tacchino da portare al padrone per Natale, per Carnevale o per Pasqua. Tali servitù erano stabilite dal padrone al momento di prendere a contadino una famiglia ed erano messe nello “scritto”, cioè nel contratto, ed anche quando non erano scritte, esse di fatto comprendevano: per le donne del contadino il fare il bucato mensile al padrone, andare a fare e a servire pranzi in occasione di feste; per gli uomini andare a sistemare il granaio e la cantina del padrone, tenere a posto il giardino della villa e via di seguito. La condizione di sudditanza dei contadini era dovuta anche a molta ignoranza, perché “non c’era l’alfabeto”; l’analfabetismo era generale tra le donne e diffusissimo tra gli uomini; di conseguenza c’era solo la cultura contadina, cioè la conoscenza per pratica del proprio mestiere e del proprio ambiente. Mancava il senso critico e spiega allora il sortilegio, la magia e la facilità nel credere al meraviglioso e al miracolistico; il tutto era vissuto con una buona dose di fatalismo e di questa situazione molto spesso traevano profitto i padroni. Nel nostro territorio le rivendicazioni dei contadini, con scioperi e manifestazioni, iniziarono tra il 1906 e il 1908: in quell’anno il governo abolì la collaia e stabilì che il seme fosse diviso a metà tra il padrone e il contadino. Nel 1919-20 ci furono altre manifestazioni dei contadini per ottenere l’abolizione degli obblighi e altre cose “ma non se ne fece niente – racconta un anziano – perché cambiarono le cose e venne una grossa disciplina periodo fascista”. Le persone più anziane ricordano che materialmente ed economicamente la situazione della popolazione delle campagne non era tra le migliori, eppure moralmente e nelle relazioni familiari e sociali v’erano aspetti molto positivi: così mentre le stagioni agricole scandivano il ritmo della vita umana, fiorivano saggi proverbi e meravigliose tradizioni, molte delle quali purtroppo andate perdute. Una seria ricerca storica consentirebbe, inoltre, di trovare agganci inediti con le aspirazioni socio-culturali che nell’ottocento italiano sfociarono nel patriottismo delle guerre d’indipendenza e nel rifiuto degli antichi domini. Avremmo modo di capire come al dominio Pontificio fece seguito, anche in queste zone, dopo l’unità d’Italia, quello massonico, con i grandi proprietari terrieri che subentrarono nelle proprietà clericali. C’è poi la storia delle due grandi guerre del Novecento, quella del 1915 e quella del 1940, documentata da due lapidi che elencano i caduti e i dispersi montegabbionesi e i montegiovesi, testimonianze di una partecipazione. Scopriremmo gli orrori della guerra, ma anche la buona fede e il senso del dare la vita per un ideale, e poi la forte volontà della riconciliazione e della ricostruzione accanto alle inevitabili contraddizioni degli uomini. Tanti frammenti di storia potrebbero essere ancora raccolti tra i testimoni viventi, sempre meno numerosi, perché un tratto della nostra storia, che è patrimonio di tutti, non sia stato vissuto inutilmente e non vada disperso.