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La presenza dell’uomo nel territorio di Guardea risale a tempi antichissimi. Essa è documentata da strumenti in selce: bifacciali, punte, lame, raschiatoi, bulini e punteruoli, che insieme agli scarti della lavorazione della selce stessa, come schegge non lavorate e nuclei, sono stati trovati in abbondanza in svariate zone del comune.
Appartengono quasi tutti al Paleolitico medio musteriano (300.000- 80.000 anni fa ca.), mentre il ritrovamento di una piccola ascia di diorite ci porta all’Eneolitico, o età del Rame, cioè a circa 6500 anni fa.
Manufatti protostorici testimoniano continuità nel tempo dell’insediamento umano, favorito da condizioni climatiche e ambientali ideali per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento; queste attività, unite alla caccia e alla pesca, consentirono il progresso dei gruppi umani che da nomadi divennero stanziali, abbandonando i ricoveri occasionali come le grotte e stabilendosi in dimore costruite con i materiali che avevano a disposizione, tra questi il travertino.
Due sontuose dimore di campagna risalenti al periodo romano sono state individuate nelle località Piana del Ceraso e la Pieve. La prima fu studiata nel 1925 dall’archeologo Pietro Romanelli per conto della Reale Accademia dei Lincei. Egli riportò alla luce due pavimenti a mosaico in bianco e nero che rappresentavano mostri marini, soggetti preferiti dall’arte musiva per la decorazione di ambienti termali, e per la somiglianza con i mosaici di Castelporziano li datò al II sec. dell’era volgare.
Sebbene i lavori agricoli abbiano distrutto entrambi i pianciti, recenti ricerche archeologiche hanno permesso il recupero di singole tessere e di materiale fittile frammentato appartenente a vasi e contenitori di varia foggia ed uso.
Diverso e più approfondito il discorso che possiamo fare sulla Pieve. Questo complesso monumentale e la sua area circostante, indagati a partire dal 1988, hanno restituito, nel corso di ricognizioni di superficie, reperti archeologici che coprono un lunghissimo ed ininterrotto arco di tempo che dal Paleolitico medio arriva fino ai nostri giorni.
Strumenti litici quali selci lavorate, bulini, grattatoi, schegge, punte di frecce e scarti di lavorazione testimoniano una frequentazione, se non proprio una occupazione, di tutta l’area a partire da tempi assai remoti.
Impasti rosso- brunastri sono riferibili genericamente all’età arcaica, quindi alla presenza etrusca, e centinaia di frammenti di vasi e contenitori ci illustrano che dal V sec. a.C. per tutta l’età repubblicana ed imperiale fino ad arrivare al tardo antico, in questa zona doveva sorgere una grande villa romana di campagna legata allo sfruttamento delle risorse che il territorio offriva. Rivestimenti in marmi policromi presenti in frammenti, stucchi, piccole parti di affreschi di colore rosso pompeiano, lastrine sottili, tessere in bianco e nero, coppi, bipedali, frammenti di dolia, di sigillata italica, gallica e africana, di ceramica a vernice nera, di ceramica a pareti sottili e acroma, vetri e monete testimoniano la ricchezza della villa su cui fu impiantato il complesso religioso, la Pieve, in un periodo che non dovrebbe andare oltre il V. sec. d.C., al momento della grande diffusione del Cristianesimo nelle campagne. Per la sua costruzione fu utilizzato il molto ricco e abbondante materiale di spoglio che la villa offriva, sovrapponendosi su di essa di cui sono tuttora riconoscibili le strutture in opera laterizia (opus latericium) e in opera cementizia di epoca romana. La struttura architettonica odierna è nascosta dalla casa colonica cui è stata destinata in tempi abbastanza recenti.
La Pieve fu dedicata a S. Cesareo, diacono e martire del I sec., ed essendo la prima chiesa della zona aveva il privilegio del fonte battesimale e del cimitero, rispetto alle altre chiese che in seguito sorsero nel territorio, che consentiva ai suoi rettori di seguire lo sviluppo delle famiglie,.
Quando essa fu abbandonata non ci è dato di sapere con sicurezza. Probabilmente accadde nel periodo in cui le orde dei barbari con le loro feroci incursioni portarono ovunque morte e desolazione, cosicché la popolazione, per cercare scampo, fu costretta a trasferirsi nel castrum edificato su un colle isolato, distante pochi km., ad un’ altezza di 572 m. s.l.m.. Il borgo in seguito prenderà il nome di Guardea Vecchia, toponimo di derivazione germanica che sta a significare vedetta, guardia.
Non conosciamo l’anno o il periodo della sua fondazione, probabilmente avvenne tra il IX ed il X sec., si è ipotizzato l’anno 880, per opera di un discendente di un conte dei Baschidella Guascogna discesi in Italia al seguito di Carlo Magno.
Trasferita quindi la popolazione all’interno delle imponenti ed altissime mura castellane, anche il titolo della Pieve fu trasportato nella chiesa parrocchiale che vi era stata nel frattempo costruita e soltanto molto tempo dopo, a S. Cesareo fu affiancato S. Pietro come contitolare. .
Il documento d’archivio in cui compare per la prima volta il nome di Guardea risale al 1154 ed è un atto di vendita della metà di quattro castelli posseduti dalle figlie di un “Raynaldo de Guardeia” a papa Adriano IV. Questo documento, conservato nell’Archivio Segreto Vaticano, è stato riprodotto nel IV volume dell’opera Regesta Pontificum Romanorum -Italia Pontificia- di Paolus Fridolinus Kehr pubblicata nel 1909.
Dopo questa data, per avere ulteriori notizie, occorrerà attendere quasi un secolo, quando nel 1232 i signori di Alviano, che nel frattempo, non si sa a quale titolo, erano entrati in possesso del feudo di Guardea, sottomisero se stessi ed i loro possedimenti al potente comune ghibellino di Todi. Questo atto di sottomissione fu rinnovato varie volte perché gli Alviano, a seconda delle vicende politiche del momento, tentarono a più riprese di scrollarsi di dosso l’ingerenza tuderte. Ma tra il 1367 ed il 1368, a seguito di un processo intentatole dalla Chiesa, la città di Todi con tutto il suo territorio fu assoggettata definitivamente al Patrimonio di S. Pietro, perdendo con la libertà anche i feudi di cui si era impadronita, tra questi vi era Guardea.
Così gli Alviano riebbero le loro terre, tranne Guardea che per un certo periodo passò direttamente sotto la potestà del papa, godendo di una sorta di autonomia poiché era tenuta solo a pagare tributi alla Camera Apostolica. Dopo alterne vicende, tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, ai tempi in cui il grande condottiero Bartolomeo d’Alviano si trovava alla ribalta della storia nazionale ed internazionale, Guardea rientrò nella sfera d’influenza di questa famiglia.
Dopo la morte di Bartolomeo e del suo unico figlio maschio Livio, la famiglia Farnese, che possedeva beni situati intorno al lago di Bolsena e che aveva cominciato a espandersi nella Teverina con l’acquisto del castello di Giove da parte di Galeazzo, tentò di impadronirsi dei beni degli eredi di Bartolomeo con l’avallo di papa Paolo III (Alessandro Farnese), che mirava a costituire un grande stato feudale per il figlio Perluigi.
La vedova di Bartolomeo, Pentesilea, le figlie e gli altri eredi legittimi, ma non tutti, per quattro anni, a partire dal 1537 anno in cui il pontefice Paolo III con la bolla “Vices licet immeriti” aveva costituito il ducato di Castro per Pierluigi, permutarono o vendettero le loro quote- parti al Farnese, cosi che l’ex Status Alviani finì inglobato nel ducato di Castro.
Non si hanno però notizie sulla quota di eredità, che comprendeva parte di Guardea, posseduta da Porzia, figlia di Bartolomeo e moglie di Paolo Pietro Monaldeschi della Cervara, sicuramente non fu mai venduto.
Dopo la fine tragica di Pierluigi, avvenuta nel 1547, e la morte di suo padre Paolo III, la buona stella dei Farnese cominciò a declinare perché il papa successivo, Giulio III, dichiarò decaduti Ottavio ed Orazio, figli di Pierluigi, perché si erano avvicinati troppo alla Francia di Enrico II suo nemico.
Il 9 settembre 1553 Giulio III incamerò i beni che i Farnese possedevano nello Stato della Chiesa e tra questi fu espressamente nominato il castello di Guardea, mandandovi come commissario proprio Paolo Pietro Monaldeschi della Cervara.
Infatti, approfittando del momento di disgrazia dei Farnese, gli eredi degli Alviano, in veste di rappresentanti pontifici, avevano cominciato ad avanzare diritti di proprietà sui loro antichi feudi.
Il 12 marzo 1567 il castello di Guardea passò a Luca della Cervara, nipote di Paolo Pietro, il quale però, per avere commesso alcune malefatte, fu condannato dal Fisco ed il feudo di Guardea con altri beni gli furono requisiti dal commissario apostolico Pietro di Sorbolongo.
Nel 1571 Caterina Cervara, figlia di Porzia d’ Alviano e di Paolo Pietro Monaldeschi della Cervara, nipote diretta di Bartolomeo, era “curatrice ac legittima administratrice” dei castelli di Guardea e del Poggio.
Rimasta vedova di Monaldo Clementini da cui aveva avuto, tra gli altri, la figlia Sulpizia, si unì in matrimonio con Ludovico dei conti di Marsciano al quale, vedovo a sua volta, era nato dal precedete matrimonio Orazio che sposerà Sulpizia.
Caterina portò in dote duemila scudi e il feudo di Guardea. Poiché la quinta parte di esso era però posseduta dalla nipote Pentesilea degli Atti, il 25 gennaio 1603 tra zia e nipote si giunse ad un accordo e Pentesilea cedette a Caterina la sua quota- parte per 9500 scudi.
Dopo la morte di Caterina Monaldeschi della Cervara, il castello di Guardea con tutte le terre ad esso pertinenti passò per sua volontà al figlio Alessandro ed al nipote Ludovico dei conti di Marsciano, i cui discendenti lo tennero fino ai primi anni del ‘900, quando il Comune, avvalendosi di una legge promulgata dal Parlamento italiano il 24 giugno 1888, dopo anni di lotte legali con i Marsciano, riuscì ad affrancare tutte le terre per un canone annuo di £. 2728,55. Questo canone di lì a breve fu estinto mediante il versamento della somma di £ 54.571. I sindaci artefici della liberazione delle terre dalle antiche servitù feudali furono: prima Gioacchino Salusti, che diede il via all’affrancazione, poi Alfonso Canali che la portò a termine.
Oggi queste terre ricche di boschi e di pascoli costituiscono il Dominio Collettivo di Guardea che, fondato il 14 maggio 1889, soltanto il 1 ottobre 1905 riuscì ad entrare in possesso dei beni affrancati dal Comune.
Mentre si succedevano queste vicende, accadeva che la popolazione, già nei primi anni del 1600, cominciasse ad abbandonare le proprie case situate all’interno delle mura castellane per trasferirsi a valle. Questa scelta fu dettata da diversi fattori: i motivi di difesa dalle invasioni dei barbari e dalle incursioni di nemici e banditi erano venuti meno, i campi da coltivare si trovavano in pianura, per cui era molto scomodo scendere in basso al mattino e tornare di sera sul colle, soprattutto quando si dovevano condurre al pascolo le mandrie di pecore e buoi. Questo trasferimento a valle avvenne non solo per volontà popolare, ma anche perché i conti di Marsciano, con atto pubblico del 4 maggio 1684, diedero il consenso alla costruzione di nuove abitazioni all’esterno delle mura del castello.
Molti nuovi edifici erano sparsi per la campagna, mentre il nucleo più consistente delle case si trovava raggruppato nei rioni denominati Marruto e Scoppeti. Tra essi, al centro di un terreno detto Piano Antico di proprietà della parrocchia, fu eretta la nuova chiesa parrocchiale intitolata ai Ss. Pietro e Cesareo.
L’abbandono definitivo del castello avvenne nel 1707 allorché il parroco, d. Giuseppe Lorenzo Canale, nel giorno del Corpus Domini, trasportò processionalmente il Santissimo dalla vecchia chiesa in quella rurale di S. Egidio situata a valle, in attesa che fosse terminata la nuova chiesa dove, il 9 novembre 1732, fu celebrata la prima messa.